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Istanbul Marathon

Il .

3 novembre - Chi non è mai stato ad Istanbul e almeno una volta ne ha avuto la tentazione lo faccia pure, convintamente, alla prima occasione. Qualche dato statistico non accontenta il romanticismo ma può dare un'idea. La città è la più grande (quattro volte Londra) e popolosa (nessuno sa con precisione il numero di abitanti, ufficialmente dodici milioni in realtà pare siano almeno venti) d'Europa. Ultimamente sei milioni di turisti la visitano ogni anno. I nostri occhi della “prima volta" l'hanno vista così: un indescrivibile luogo di commerci e traffici, in una ambientazione in bilico tra l'epoca vittoriana, il suk arabo ed una modernissima rete di trasporti e strade a scorrimento veloce. Qui tutti spostano di tutto e si muovo continuamente in una folla ondeggiante a volte così fitta, nelle stradine del centro, da doversi regolare a spintoni. È una frenetica, incredibile attività da formicaio operosissimo lontanissima dalla sonnolenta e vagamente deprimente apatia che regna a casa nostra. Ci sono strade in centro dove si possono trovare centinaia di piccoli negozi, uno accanto all'altro che vendono esattamente gli stessi articoli stipati a migliaia in vetrine e scaffali. Per strada, nel gran bazar (il mercato coperto più esteso al mondo), nei negozietti che affacciano sui lati di quello delle spezie, ovunque si è investiti di colori, luci, richiami dei commessi, odori di pesce fritto, di castagne e pannocchie alla brace, degli enormi spiedi dei Kebab che girano senza interruzione e vengono rifilati senza sosta da mani rapide e chirurgiche. In questa atmosfera stordente si viene accolti dalla gentilezza di tutti, dagli sguardi furtivi delle donne dal capo coperto e da quelli sfrontati delle adolescenti “laiche" libere quanto le nostre ma smaliziate quanto sanno essere i popoli delle terre di confine. Bisanzio, Costantinopoli, Istanbul, molti nomi per descrivere questa enorme porta incastrata tra ovest ed est. L'Europa e l’Asia, le chiese di Cristo e l'Islam si sono sempre incontrate qui. Da millenni. Si dice che ad Istanbul si parlino 70 lingue e mezzo (l'idioma zingaro), c’è da crederci. La 41^ Maratona per noi è cominciata presto, in una mattina fresca. Abbiamo l'albergo in zona centrale, tra Sultanahmet (la collina ove sorgono la chiesa-moschea di S.Sofia e molti altri incredibili palazzi) e la stazione ferroviaria di Sirkeci, per interderci quella dove arrivavano (e ancora arrivano, ma in versione solo turistica) i viaggi regolari dell’Orient Express. Speciali nuovissimi bus di linea trasformati in centinaia di navette ci hanno trasportati a migliaia in Asia, per loro qui di fronte. Dopo aver transitato, in un'alba color del the che illuminava il mar di Marmara ed il Corno d'oro, sul ponte Galata (deve il nome alla torre ed alla storica zona di influenza genovese) e superato uno dei modernissimi quartieri di alberghi e banche siamo discesi verso l’Asia raggiunta per mezzo del Bosforo bridge. Sulla linea di partenza eravamo veramente una moltitudine variopinta. Mai vista in una gara podistica tanta gente muoversi, correre per riscaldarsi, affannarsi in ogni direzione. In effetti contemporaneamente si correva la 15 chilometri che richiama tantissimi iscritti. La chiamano la corsa dei due continenti o Eurasia marathon e penso che nel loro sentimento nazionale serva anche a rappresentare un ulteriore simbolo di unità. La partenza alle nove precise ci ha mossi a ritroso verso il ponte sullo stretto (è assai lungo, a schiena d'asino e somiglia alla versione moderna del Ponte Morandi che ormai giace nel profondo delle nostre nostalgie) per poi costringerci ad una ripida salita di un chilometro ed alla successiva brusca discesa. È cominciato così un percorso che dopo dieci chilometri ha raggiunto il centro città, allontanandosene sul lato del mare e sul terribile solidissimo asfalto di una autostrada (o superstrada) tutta saliscendi, sottopassi e soprapassi. Dal venticinquesimo si tornava sull'altra corsia per arrivare, dopo un ultimo chilometro di cattivissima salita, sulla spianata che , ancora al buio, ci aveva visti far la fila per le navette. Alla distanza della Mezza ho capito come sarebbe andata a finire, mi sono rassegnato consegnandomi al martirio in compagnia di un solido giovanotto olandese incontrato al quindicesimo con il quale ci siamo afratellati chiacchierando quando il fiato ce lo concedeva e che al trantaseiesimo ha allungato precedendomi sul traguardo di qualche minuto. Mi ha atteso per dirmi che era la sua prima volta qui come per me e che se non fosse stato per il nostro incontro non sarebbe arrivato in fondo. Sarà, ma dubito, personalmente mi sentivo uno straccio da lavare per terra e quando Carmen mi ha chiamato per farsi vedere mi sono sentito un po’ vecchio. Lei ha corso per una dozzina di chilometri dalla partenza fino all’albergo, approfittando dell’occasione, poi mi ha preceduto sul traguardo, come sempre. Benedetta ragazza, mi ha dato una mano a rivestirmi.

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