Il Derthona Winter Trail era nel programma già da tempo. Per gli appassionati come resistere alla tentazione di correre, a pochi chilometri da casa, una gara “fuoristrada” in pieno inverno? Le campestri sono ruvide e dure ma brevi. Chi ama ogni tanto allontanarsi dalle strade asfaltate e misurarsi su distanze meno assillanti nella brutta stagione non ha grandi possibilità di gareggiare. Ecco allora l’occasione del primo appuntamento del circuito dei Malaspina 2018. Una un, due, tre (parlando chiaro poter scegliere, nel programma, tra le distanze di 10, 20 e 30 chilometri) che ha ereditato gran parte del percorso dell’”Airone” che si correva qualche stagione fa. Partenza da Carbonara Scrivia (chissà se il nome dipende più da attività estrattive o intrighi di società segrete del passato) di fronte al bel palazzetto a foggia di grande pallone immacolato. L’organizzazione ha scelto di dare il via contemporaneo a chi corre, indipendentemente dalla distanza scelta. Gli itinerari si biforcheranno più avanti. È un sistema che mi piace. All’inizio una gran folla, poi dopo i due bivi tutto cambia. Si passa dalle claustrofobiche sportellate iniziali alla compagnia rarefatta di compagni di viaggio sempre più invisibili. Del resto è pur vero che la corsa è una efficace rappresentazione dell’esistenza e che l’autore fa dire al protagonista de “La vita di Pi”, nelle fasi finali della sua intervista-confessione che “La vita è un continuo susseguirsi di atti di separazione”. La gara in sé oggi, ad opinione di chi scrive, è stata bruttissima e, alla fine, bellissima. Mettendo il tutto in fila e chiudendo gli occhi ricordo che i primi due chilometri con la loro cocciuta salita ci hanno tagliato il fiato e, al solito, fatto dubitare di farcela. I continui saliscendi con pochi tratti di pianura ci hanno messi continuamente alla prova con poche possibilità di scampo. La nebbia fitta che ha avvolto almeno i tre quarti iniziali del percorso non ci permetteva nemmeno di capire quanto erano lunghi gli strappi e come gestirli. Il fango onnipresente ha reso a tratti insaponata la via tanto da tornare con il ricordo alle comiche prove dei Giochi Senza Frontiere di “Mamma Rai TV” delle nostre estati anni 70. Poi, ad essere onesti e cedendo alla irrazionalità paradossale della corsa, si può anche dire che iniziare così con il cuore in gola in mezzo a tutti quelli che in partenza ci mettono sprint e spinta è una emozione sempre uguale e sempre nuova. I saliscendi sono il nostro orizzonte di collina, ci siamo affezionati e del resto il trail ce lo andiamo a cercare, il medico non ce lo prescrive di sicuro. La nebbia, avvolgendoci nelle sue spire ipnotiche, ci rivela le ombre che sembrano miraggi dei compagni di viaggio che ci precedono e le forme scheletriche e contorte dei meli e dei ciliegi che ritroviamo, inquietanti, nelle tele di Pelizza da Volpedo. Con pochi metri di visuale e l’umidità che ci annebbia la vista possiamo concentrarci sul sentiero, popolato dai marroni rugginosi delle foglie di quercia, così lontani, su queste basse colline, dai morbidi tappeti di castagno della mia Valle. Il fango rende le nostre scarpe simili a pesanti ed ingombranti ferri da stiro, Gianni Tomaghelli all’arrivo mi ha detto che è come avere le ciaspole ai piedi. Lui è un fuoriclasse, riesce a correre veloce in ogni condizione. Per mio conto concordo in pieno con Checco Galanzino che stamane nel briefing del pre gara ha fulmineamente sentenziato: “Dalle nostre parti, a questa stagione, il terreno può essere gelato e durissimo o fradicio e morbidissimo”. Oggi è stato il mio battesimo del fango, con le mie gracili leve ho faticato sette camicie per sottrarmi all’abbraccio soffocante dell’impasto di terra grassa nelle carrereccie tra i filari. Mi sono chiesto mille volte chi me lo ha fatto fare. Raggiunto il traguardo, tolte le scarpe e bevuti un paio di bicchieri di succo di frutta, mi sono detto che tutto sommato mi sono divertito, che è stato bello e chissà quali altre sfide ci aspettano. Correndo si torna anche un po’ bambini.