16 giugno Siamo a New York da cinque giorni ed ho già corso quattro volte. È la prima volta che attraversiamo l’Atlantico, dell’America ne avevo solo letto, visto e sentito parlare moltissimo. Se qualcuno mi chiedesse se la città è come me la aspettavo non saprei cosa rispondere. Forse no, forse si. La credevo più caotica, disordinata e sporca. È sicuramente enorme ed affollata. Al mattino, uscendo nell’aria fresca e spazzata dal vento che viene dall’Hudson, cominci a sentire le sirene. Che sia polizia, ambulanze o vigili del fuoco poco importa, ti accompagneranno tutta la giornata. Lascio la Street 135, scendendo i tre gradini della palazzina incastonata nella collana ininterrotta con le sue consorelle. Quattro colonne doriche sorreggono il balcone soprastante l’ingresso. Qui i piccoli condomini hanno nomi soavi come Corinne, Regina, Lorraine, Holland. Le scale antincendio in facciata ci rimandano a Film e Telefilm visti a decine. Le strade alle sei sono quasi deserte, il traffico lento ed assorto. Il marciapiede largo almeno dieci metri è un comodo sentiero. Scendendo verso sud i cartelli verdi che indicano le Street cadenzano il passo quasi fossero quelli di gara. 128th, 127th,...115th….102th.. Le insegne dei negozi sono grandissime e coloratissime, gli addetti ad alberghi e condomini di lusso sferzano il selciato con getti d’acqua enormi che schizzano da manichette King Size. Sui tetti dei palazzi svettano le cisterne, grandi cilindri grigi che culminano con coperchi conici e tozzi. Nella Genova assetata dei vicoli le vasche di deposito le capisci, qui con le acque larghe un chilometro dell’Hudson a due isolati un poco meno. Evidentemente qualcosa mi sfugge. Svolto sulla 72th, ancora cinquecento metri ed ecco Central Park, ipnotizzato nell’ora mattutina. Alle 6 e mezzo le vie interne principali sono affollate come la Via Girardengo degli anni 80, gruppi di ciclisti sciamano veloci in mezzo al traffico di chi corre in tutte le direzioni. Le stradette ed i sentieri laterali si arrovellano srotolandosi tra boschetti e radure. Pesto il terreno morbido accanto al grande lago intitolato a Jacqueline Kennedy Onassis, molti mi sfiorano incuranti, concentrati sul loro ritmi. La luce del sole ancora basso ad est supera i grattacieli del Mount Sinai Hospital e rimbalza sulla superficie immobile dell’acqua. Le lenti scure mi proteggono a dovere. Proseguo, doppio il Tennis Court. I campi seminascosti oltre la recinzione mandano tonfi sordi di palle maltrattate e vocii d’approvazione. Esco sulla centodecima, ieri era la centesima, comincio ad ambientarmi. Rientro correndo a ritroso la Amsterdam Avenue. Decine di scuolabus gialli di ogni dimensione e modello cominciano il servizio del mattino. A Manhattan un sentore, un aroma speziato ed acre ti insegue dappertutto. Sa di rosa, mela e cannella in salsa d’aceto questa città dove se compri diciotto uova spendi 2 dollari e 99 e se ne compri dodici devi pagarne 3 e 99. Alle sette del mattino a Bryant Park, sulla 42th, cominciano i corsi gratuiti e collettivi di Yoga, Tai Chi e Limòn Dance. Possono partecipare tutti. Dopo qualche ora dal tuo arrivo ti senti a casa, anzi ti sembra di esserci tornato dopo una lunga assenza. Apri gli occhi, ti ricordi che sei qui per la prima volta. Novi è a più di seimilaquattrocento chilometri. Magie.